I poemi del Ring non sono scritti con la classica rima rimata (la rima di fine verso) poiché questa è, agli occhi di Wagner, una classica sovrastruttura di stampo “moderno” e in certo senso deteriore; perciò Wagner decide di impiegare la Stabreim, ovverosia la rima allitterativa, caratterizzata dal ripetersi, nell’ambito dello stesso verso, di parole che iniziano e/o terminano con suoni simili: quindi una rima più arcaica, più ingenua, più naturale, che risulta perciò perfettamente funzionale al suo disegno. Un esempio classico ne sono i primi versi in assoluto del Ring:
Weia! Waga! Woge, du Welle!
Walle zur Wiege! Wagalaweia!
Wallala weiala weia!
Oppure, poco dopo, Alberich che impreca:
Garstig glatter
glitschriger Glimmer!
Ancora Wellgunde:
Schwarzes, schwieliges
Schwefelgezwerg!
Per quanto non abbiano di certo valenza artistica assoluta(1), i poemi del Ring, come del resto tutti i testi delle opere di Wagner, stanno parecchi gradini al di sopra dei classici libretti d’opera, non fosse altro che per la loro profondità concettuale e per la perfetta complementarietà con la musica che resta, ovviamente, la chiave di volta della grandezza di Wagner. Per questo è consigliabile seguire l’esecuzione con il testo(2) (possibilmente leggerlo e studiarlo anche prima): non si ripeterà mai abbastanza che i poemi di Wagner non sono beceri testi puramente funzionali ad arie, cabalette, concertati, cori, e via dicendo; e così, se non se ne afferra il significato e il contenuto, si rischia di non capir nulla nemmeno della musica.
Quanto alla musica, appunto, i cosiddetti numeri chiusi e i recitativi dell’opera classica sono banditi pressochè totalmente, in favore della melodia infinita e del declamato, che sono ovviamente più realistici(3): il Ring, come tutte le fiabe che si rispettino, è assolutamente “realista”, ed è per questo che due personaggi raramente vi cantano insieme, così come, nella realtà quotidiana, le persone di norma non parlano contemporaneamente, ma una dopo l’altra…
Dopo la “maturazione” schopenaueriana, i cori sono usati da Wagner solo nell’ultima opera, ma adesso sempre ed esclusivamente per rappresentare volgari forme di espressione tipiche di masse fondamentalmente “incivili” (nella fattispecie i Ghibicunghi, ma in realtà i compari dell’ebreo Meyerbeer e del Jockey Club e con essi lo stesso Grand Opera, passato, agli occhi di Wagner, da modello da seguire a deteriore fenomeno da sbeffeggiare platealmente(4)): forme che vengono da Wagner deliberatamente spinte ai limiti estremi del cattivo gusto… ma sempre con grandissima arte!
I leit-motive(5) assumono un ruolo fondamentale nella costruzione musicale, e non saperli individuare e riconoscere significa perdere letteralmente la possibilità di capire, e in ultima analisi di apprezzare, l’intera tetralogia. Essi sono il cardine, la spina dorsale della costruzione wagneriana: suonati dagli strumenti dell’orchestra, raccontano e spiegano come e più delle parole stesse; ci fanno ricordare fatti e persone, li mettono in relazione fra loro, altre volte anticipano il futuro (insomma, hanno un pò la funzione del coro nelle tragedie greche…); vanno e vengono, da un’opera all’altra, dall’inizio alla fine, crescono, maturano, invecchiano, sfioriscono, si intrecciano, perfino combattono fra loro, sono cioè delle vere e proprie creature viventi: ecco perchè non conoscerli (e riconoscerli) significa purtroppo perdere buona parte dei contenuti - e soprattutto dei piaceri - del Ring.
Un’avvertenza, a questo punto, non sarà peraltro superflua: l’etichettatura dei leit-motive è di per sè qualcosa di arbitrario e, se ci si attiene ai vari “cataloghi”(6) si rischiano equivoci ed anche veri e propri travisamenti; poiché il leit-motiv a volte impersona qualcuno, altre volte qualcosa, altre volte ancora un concetto, o uno stato d’animo. Meglio quindi cercare di individuare il tema esaminando il contesto in cui esso nasce e quelli in cui ritorna, allo scopo di identificarne il soggetto e la natura: che spesso divengono chiari solo dopo che si è esplorata l’intera favola wagneriana.
In ogni caso, è evidente che, se non se ne studia e se ne impara il linguaggio, sarà difficile se non addirittura impossibile comprendere i concetti, i pensieri e la filosofia che per suo tramite l’autore vuole trasmetterci. E – ahinoi – il linguaggio musicale è fatto anche di regole e di notazioni, dalle quali non si può prescindere, se si vuole spiegare “come” la forma arrivi ad incarnare il contenuto(7).
Mentre la musica è capace di parlare e soprattutto di spiegarsi da sola, colpendo direttamente i nostri sensi, chi vuol descrivere con parole il modo con cui il rapsodo ha impiegato la musica per raccontarci la sua favola (in verità: ha impiegato la favola per costruirci la sua musica!) deve necessariamente usare quei simboli.
Tornando a Wagner, lui era un consumato Kapellmeister (direttore d’orchestra) ed ha messo a frutto la sua esperienza nella composizione e nell’orchestrazione delle sue opere, riuscendo ad essere miracoloso sia nel grande, come nel piccolo: le sei arpe prescritte in tutte quattro le partiture, le diciotto (!) incudini incluse nella terza scena del Rheingold, le tube da lui stesso inventate testimoniano della sua mania di grandezza, ma come non riconoscere le sue supreme capacità miniaturistiche in tanti temi, frasi musicali e motivi fatti – magari – di sole due note, eppure così straordinariamente ed efficacemente espressivi! A proposito di grande e di piccolo, il Ring è come una cattedrale(8), di cui vanno colte le grandi strutture e le proporzioni delle forme (ponendoci in posizione prospettica, e osservando da lontano) ma di cui si possono - avvicinandosi - scoprire i tesori delle incisioni sul portale, o le splendide miniature degli affreschi e dei mosaici!
Wagner attinge a piene mani al sinfonismo ottocentesco (Beethoven in primis, ma anche Mendelssohn, Schumann) caratterizzato dal proporre, in musica, programmi filosofici e alti ideali di moralità e di bellezza(9); e la Tetralogia, con i suoi quattro macro-atti, può vagamente assimilarsi ad una composizione sinfonica, con i quattro classici movimenti, che potremmo così titolare, con notazione agogica: maestoso, andante con moto, scherzo, finale allegro maestoso… e non v’è dubbio che le quattro parti del Ring abbiano ciascuna una propria inconfondibile atmosfera e distintivi caratteri musicali.
Ma soprattutto: Wagner spinge alle estreme conseguenze lo sfruttamento della musica, facendo di essa nientemeno che lo strumento massimo di espressività dei sentimenti(10).
Quanto alla musica, appunto, i cosiddetti numeri chiusi e i recitativi dell’opera classica sono banditi pressochè totalmente, in favore della melodia infinita e del declamato, che sono ovviamente più realistici(3): il Ring, come tutte le fiabe che si rispettino, è assolutamente “realista”, ed è per questo che due personaggi raramente vi cantano insieme, così come, nella realtà quotidiana, le persone di norma non parlano contemporaneamente, ma una dopo l’altra…
Dopo la “maturazione” schopenaueriana, i cori sono usati da Wagner solo nell’ultima opera, ma adesso sempre ed esclusivamente per rappresentare volgari forme di espressione tipiche di masse fondamentalmente “incivili” (nella fattispecie i Ghibicunghi, ma in realtà i compari dell’ebreo Meyerbeer e del Jockey Club e con essi lo stesso Grand Opera, passato, agli occhi di Wagner, da modello da seguire a deteriore fenomeno da sbeffeggiare platealmente(4)): forme che vengono da Wagner deliberatamente spinte ai limiti estremi del cattivo gusto… ma sempre con grandissima arte!
I leit-motive(5) assumono un ruolo fondamentale nella costruzione musicale, e non saperli individuare e riconoscere significa perdere letteralmente la possibilità di capire, e in ultima analisi di apprezzare, l’intera tetralogia. Essi sono il cardine, la spina dorsale della costruzione wagneriana: suonati dagli strumenti dell’orchestra, raccontano e spiegano come e più delle parole stesse; ci fanno ricordare fatti e persone, li mettono in relazione fra loro, altre volte anticipano il futuro (insomma, hanno un pò la funzione del coro nelle tragedie greche…); vanno e vengono, da un’opera all’altra, dall’inizio alla fine, crescono, maturano, invecchiano, sfioriscono, si intrecciano, perfino combattono fra loro, sono cioè delle vere e proprie creature viventi: ecco perchè non conoscerli (e riconoscerli) significa purtroppo perdere buona parte dei contenuti - e soprattutto dei piaceri - del Ring.
Un’avvertenza, a questo punto, non sarà peraltro superflua: l’etichettatura dei leit-motive è di per sè qualcosa di arbitrario e, se ci si attiene ai vari “cataloghi”(6) si rischiano equivoci ed anche veri e propri travisamenti; poiché il leit-motiv a volte impersona qualcuno, altre volte qualcosa, altre volte ancora un concetto, o uno stato d’animo. Meglio quindi cercare di individuare il tema esaminando il contesto in cui esso nasce e quelli in cui ritorna, allo scopo di identificarne il soggetto e la natura: che spesso divengono chiari solo dopo che si è esplorata l’intera favola wagneriana.
In ogni caso, è evidente che, se non se ne studia e se ne impara il linguaggio, sarà difficile se non addirittura impossibile comprendere i concetti, i pensieri e la filosofia che per suo tramite l’autore vuole trasmetterci. E – ahinoi – il linguaggio musicale è fatto anche di regole e di notazioni, dalle quali non si può prescindere, se si vuole spiegare “come” la forma arrivi ad incarnare il contenuto(7).
Mentre la musica è capace di parlare e soprattutto di spiegarsi da sola, colpendo direttamente i nostri sensi, chi vuol descrivere con parole il modo con cui il rapsodo ha impiegato la musica per raccontarci la sua favola (in verità: ha impiegato la favola per costruirci la sua musica!) deve necessariamente usare quei simboli.
Tornando a Wagner, lui era un consumato Kapellmeister (direttore d’orchestra) ed ha messo a frutto la sua esperienza nella composizione e nell’orchestrazione delle sue opere, riuscendo ad essere miracoloso sia nel grande, come nel piccolo: le sei arpe prescritte in tutte quattro le partiture, le diciotto (!) incudini incluse nella terza scena del Rheingold, le tube da lui stesso inventate testimoniano della sua mania di grandezza, ma come non riconoscere le sue supreme capacità miniaturistiche in tanti temi, frasi musicali e motivi fatti – magari – di sole due note, eppure così straordinariamente ed efficacemente espressivi! A proposito di grande e di piccolo, il Ring è come una cattedrale(8), di cui vanno colte le grandi strutture e le proporzioni delle forme (ponendoci in posizione prospettica, e osservando da lontano) ma di cui si possono - avvicinandosi - scoprire i tesori delle incisioni sul portale, o le splendide miniature degli affreschi e dei mosaici!
Wagner attinge a piene mani al sinfonismo ottocentesco (Beethoven in primis, ma anche Mendelssohn, Schumann) caratterizzato dal proporre, in musica, programmi filosofici e alti ideali di moralità e di bellezza(9); e la Tetralogia, con i suoi quattro macro-atti, può vagamente assimilarsi ad una composizione sinfonica, con i quattro classici movimenti, che potremmo così titolare, con notazione agogica: maestoso, andante con moto, scherzo, finale allegro maestoso… e non v’è dubbio che le quattro parti del Ring abbiano ciascuna una propria inconfondibile atmosfera e distintivi caratteri musicali.
Ma soprattutto: Wagner spinge alle estreme conseguenze lo sfruttamento della musica, facendo di essa nientemeno che lo strumento massimo di espressività dei sentimenti(10).
___
Note:
1. Wagner, inguaribile narcisista e gran presuntuoso qual’era, riteneva assolutamente di sì…
2. Consiglio a tutti la pregevolissima traduzione di Guido Manacorda, reperibile in rete.
3. Wagner in ciò segue la strada imboccata da Carl Maria von Weber, in specie con Euryanthe, opera oggi ingiustamente e immeritatamente messa da parte (se si esclude l’ouverture): prima ancora che nel Lohengrin, già nel Fliegende Holländer se ne sente l’influsso, specie nelle cupe atmosfere che circondano l’olandese.
4. Wagner comincia qui, di fatto, a perpetrare quella che si potrebbe definire “diffamazione a mezzo opera”. Nei Meistersinger darà il meglio di sé anche in questa specialità, “sputtanando” apertamente il malcapitato critico musicale praghese Eduard Hanslick (trapiantato e divenuto famoso a Vienna e reo allo stesso tempo di avere sangue ebreo nelle vene e di osteggiare la sua arte) esposto al pubblico ludibrio e al dileggio popolare, nei panni del povero Sixtus Beckmesser.
5. Anche l’impiego di questa tecnica aveva fatto la sua comparsa nella citata opera weberiana.
6. Compreso quello di Hans Paul Freiherr von Wolzogen, costruito proprio in casa di Wagner…
7. E purtroppo anche questo scritto sarà inevitabilmente infarcito di riferimenti a notazioni e convenzioni tecniche (la tonalità, la modalità, la modulazione, l’enarmonia, la tonica, la quinta vuota, la settima diminuita, il rivolto, la semicroma, la corona puntata… oltre ai segni DO, RE, MI, etc.) che potrebbero sembrare “arabo” a chi non abbia familiarità con la tecnica e la semantica musicale, ma tant’è… Però, se anche un solo lettore fosse da ciò “indotto in tentazione” (di imparare e approfondire il linguaggio musicale) considererei già questo un successo di per sé clamoroso, quanto insperato, del presente scritto.
8. Alla Cattedrale di Siviglia Franz Liszt paragonò l’immane e velleitaria opera che l’amico (e futuro genero) Richard Wagner gli aveva confidato di voler intraprendere.
9. Non per nulla, qualcuno ha coloritamente affermato che “Wagner ha portato la Sinfonia nell’Opera”; come poi il suo devoto ammiratore Gustav Mahler “porterà l’Opera nella Sinfonia”…
10. Al punto che Thomas Mann ne parlerà come di “capacità di poetizzare l’intelletto”. Altri commentatori, meno teneri, come di “spaccio di sostanze oppiacee - con effetto antisemita – a mezzo musica”…
1. Wagner, inguaribile narcisista e gran presuntuoso qual’era, riteneva assolutamente di sì…
2. Consiglio a tutti la pregevolissima traduzione di Guido Manacorda, reperibile in rete.
3. Wagner in ciò segue la strada imboccata da Carl Maria von Weber, in specie con Euryanthe, opera oggi ingiustamente e immeritatamente messa da parte (se si esclude l’ouverture): prima ancora che nel Lohengrin, già nel Fliegende Holländer se ne sente l’influsso, specie nelle cupe atmosfere che circondano l’olandese.
4. Wagner comincia qui, di fatto, a perpetrare quella che si potrebbe definire “diffamazione a mezzo opera”. Nei Meistersinger darà il meglio di sé anche in questa specialità, “sputtanando” apertamente il malcapitato critico musicale praghese Eduard Hanslick (trapiantato e divenuto famoso a Vienna e reo allo stesso tempo di avere sangue ebreo nelle vene e di osteggiare la sua arte) esposto al pubblico ludibrio e al dileggio popolare, nei panni del povero Sixtus Beckmesser.
5. Anche l’impiego di questa tecnica aveva fatto la sua comparsa nella citata opera weberiana.
6. Compreso quello di Hans Paul Freiherr von Wolzogen, costruito proprio in casa di Wagner…
7. E purtroppo anche questo scritto sarà inevitabilmente infarcito di riferimenti a notazioni e convenzioni tecniche (la tonalità, la modalità, la modulazione, l’enarmonia, la tonica, la quinta vuota, la settima diminuita, il rivolto, la semicroma, la corona puntata… oltre ai segni DO, RE, MI, etc.) che potrebbero sembrare “arabo” a chi non abbia familiarità con la tecnica e la semantica musicale, ma tant’è… Però, se anche un solo lettore fosse da ciò “indotto in tentazione” (di imparare e approfondire il linguaggio musicale) considererei già questo un successo di per sé clamoroso, quanto insperato, del presente scritto.
8. Alla Cattedrale di Siviglia Franz Liszt paragonò l’immane e velleitaria opera che l’amico (e futuro genero) Richard Wagner gli aveva confidato di voler intraprendere.
9. Non per nulla, qualcuno ha coloritamente affermato che “Wagner ha portato la Sinfonia nell’Opera”; come poi il suo devoto ammiratore Gustav Mahler “porterà l’Opera nella Sinfonia”…
10. Al punto che Thomas Mann ne parlerà come di “capacità di poetizzare l’intelletto”. Altri commentatori, meno teneri, come di “spaccio di sostanze oppiacee - con effetto antisemita – a mezzo musica”…
Nessun commento:
Posta un commento